Sono al terzo bicchiere. Formicola la
gamba sinistra. Quasi un pacchetto di sigarette. Spengo e accendo. Poi
controllo ancora un’ultima volta, forse la diciannovesima della giornata, l’orario
del tuo ultimo accesso.
È così che ci riesco, da quarantottore, a
non scriverti, a non farmi più sentire.
Non c’era niente, non c’è niente, non è
successo nulla e non deve succedere, mi ripeto continuamente, come un mantra
come un rosario. Non è successo nulla e, se Dio mi sta vedendo, non deve
succedere.
Dopo quarantottore non so benissimo
perché non debba succedere, ma credo alla decisione presa quando ero lucida,
quando ho annusato il pericolo, e, testarda stupida cocciuta come una bestia
senza ragione, continuo così, senza scriverti, sparita, ammutolita e
imperterrita.
L’ho visto arrivare all’arrembaggio,
come la nave dei pirati, con le vele nere, gonfie di vento, veloce,
terrificante, il pericolo.
E io che non ho paura, non realmente, nemmeno
oggi, oggi che non so più se ne avessi quarantottore fa, ho capito che dovrei
avere ancora più paura per questo, per questa spavalderia del cazzo che mi
ritrovo addosso e che mi fa imprecare.
Più o meno penso una parolaccia ogni
minuto. Autocensuro delle bestemmie mai dette prima, nemmeno mai pensate, ma
che, per l’occasione, scopro che mi appartengono. Le sento, le bestemmie che sento
affiorarmi dalle budella e le imprecazioni, che sono tutto quello che ho oggi.
Non so quanto durerà la santità.
Riaccendo
una sigaretta. Nona sinfonia di Beethoven.
Non ci sei. Non ci sono. Non esisto. Non
esisti. Non siamo mai esistiti.
C’eri. C’ero. Era tutto veloce,
semplicissimo, vero, vicino come certi giorni di sole, come quei cieli carichi
di pioggia che sta per scrosciare, da un minuto all’altro, già vedi i lampi,
poi arrivano i tuoni e ci vorrebbe un ombrello.
E scrivevo, tu scrivevi. Una verità. Una
domanda. Una battuta. Una allusione. E così via.
Come è successo che ho scritto che non
avrei più scritto? Ah, sì, lo ricordo. Non ho più scritto. Per ora.
Ho consegnato la mia anima a un cassetto
e il cuore ad un’amica. Ho fatto così, per ora.
Non passa un minuto che non mi
chieda se invece dovrei scriverti e cercare di viverti.
Riparto d’accapo: sigaretta, vino, Beethoven,
va bene anche Mahler, forse anche Debussy, mi dico di non pensarti e, per ora,
funziona.
Quanto ancora sarò forte? Quanti giorni
devono ancora passare perché io non aspetti più un tuo messaggio? Quanti giorni
devo ancora chiedermi cosa sarebbe stato se fossi venuta a quel pranzo? Quanti
minuti passano in un giorno, realmente, se speri che qualcosa di meraviglioso
succeda ma sai già che di solito non va così? Quanti messaggi ti sto mandando
che non scrivo e non invio?
Perdo il conto. Non lo so.
E come saremmo finiti?
Fammi capire, ci saremmo avvinghiati all’istante,
correndo da me, in studio, giusto lì di fronte, o piuttosto nel bagno, o come? O
ci saremmo fissati, tipo in silenzio, tipo imbarazzati per l’effetto iperrealtà
di noi balzati fuori dai messaggi e sbalzati dentro alla tresca? Avremmo
mangiato? Avresti ordinato con aglio o leggero? Avevi un piano, tu che
tradisci, tu che sai e che avevi ragione quando hai scritto che avremmo
sofferto, avevi un piano per viverla senza soffrire?
Nemmeno un caffè, il giuramento fatto
alla mia amica. Ed è difficile non conoscerti, non scoprire chi sei, come sei
veramente.
Strano, ma logico per me, che sia già
dato per scontato, nella mia testa, che tu non avresti capito me. O mi hai
capita? Hai già capito?
Quel poco, pochissimo, che ti ho
lasciato vedere, come sempre d’altronde, mica permetto, sai, di solito, di
vedere realmente chi sono, quel poco che hai intravisto, ti è bastato?
E adesso?
Non so se ti avrei baciato. Non so se ti
avrei conosciuto. Non so se avremmo avuto una notte, tre settimane, sei mesi,
un anno. Non lo so. Forse, ti avrei conosciuto. Forse, se non fosse tutto così
sleale e meschino, ti scriverei all’istante e all’istante correrei. Da te.
So che mi sarei divertita a disarmarti,
lasciarti abbassare la guardia, stupirti e lasciarmi stupire, come abbiamo
fatto in questi cinque giorni, sinceri e stupidissimi, consapevoli, diretti e cauti,
ruvido e adorabile tu, divertente e misteriosa io.
Se poi, però, ti avessi voluto, se mi
fossi piaciuto e se mi fosse piaciuto piacerti, avrei voluto averti. E i patti,
chiarissimi e sleali fin dall’inizio, non l’avrebbero incluso.
C’è ancora spazio per la poesia, una
speranza per noi?
Non sono paziente. Non avrei avuto la
pazienza di aspettarti. Sono impulsiva. Avrei fatto e detto robe molto da me,
ma molto illogiche, per sfidarti, come infondo sto facendo ora, con il mio
silenzio di tomba, con il mio muro di orgoglio, le mie spine di donna, la mia
fuga infantile.
Le cose che vorrei sono così diverse da
quelle che vuoi tu?
E mi starai maledicendo, starai imprecando
anche tu, magari anche un po’ contro te stesso e il tuo cliché, originale e
doloroso come l’hai definito tu, con la tua verità e l’incoerenza che ti sei
attribuito, bandito e poco raccomandabile, sono state le tue parole e le ricordo tutte.
I pieni di ieri e il vuoto immenso di
oggi.
I miei sogni e tu che chissà dove sei.
Debussy. Claire de lune. La Suite
Bergamasque, per chiamarla come si deve.
Pianissimo, note fragilissime e
piccolissime si inseguono piano piano, si staccano, silenzi, piccolissimi, poi
rotolano altre note, silenzio, nota nota nota, piccolo silenzio, nota, note,
silenzio e poi, eccolo, il crescendo di note che non si staccano più,
volteggiano, una dietro l’altra, una danza, sembra che non si fermi, poi,
eccoli di nuovo, i piccoli staccati, le pause tra una nota e l’altra. Silenzi e
note, vuoti e pieni, pause e inseguimenti, ultima nota, ultimo raggio di luna,
ultimo messaggio, finisce la Suite, come qui finiamo noi, forse.