venerdì 11 dicembre 2015

Nulla da dichiarare


L’equazione del silenzio è matematica dell’indifferenza tra esseri umani.
Silenzio in cambio di pensieri cestinati prima di essere consegnati a parole, censura di emozioni, sottrazione di momenti speciali resi uguali a tutti gli altri, interminabili, nell’attesa di condividere qualcosa che si assottiglia sempre più nella nebbia che l’assenza di parole nemmeno può descrivere.
Nella distanza, senza parole, senza emozioni, nulla passa, nulla arriva.
Il silenzio è disumano e disumanizza i mondi interiori.
Il silenzio straccia le vesti, abbandona, lacera l’animo.
Un’anima muta è un’anima suicida.


martedì 27 ottobre 2015

Abbracciami


Sono piccola piccola fra le tue braccia. L’unico posto nel quale vorrei stare. Piccola come quando sei volato via.

Le tue mani erano grandi, come i tuoi occhi.

Non avevo paura. Non sapevo cosa fosse. La paura è arrivata come il buio di certi pomeriggi d’inverno, quando alzi la testa e guardi fuori dalla finestra e trovi la notte, le ombre dei rami e gli alberi nascosti dai lampioni, il freddo che punge sul vetro della finestra e nelle ossa. La paura è arrivata all'improvviso e io non sapevo nemmeno darle un nome.

Parlami, accarezzami i capelli, dimmi le cose del mondo.

Perché non sei guarito? Perché sei andato in Cielo? Con chi sei lassù? Chi mi darà i tuoi baci e le tue carezze? Come faccio a spiegarti le cose che non so e che mi devi spiegare tu? Dove sei? Se qui? Qui dove?
È tutto silenzio qui dentro, silenzio e buio.
Quando torni?
Io ti aspetto…

Nessuno mi sente, nessuno mi vede, nessuno mi stringe. Non vado, non voglio, se tu non torni.
Io resto qui, ti aspetto finché tu non vieni.
Sono cattivi con me, io non li guardo, ma li sento, là fuori, loro sono cattivi!

Perché non vieni? Cosa ti ho fatto? Cosa ho detto? Quanto dura il castigo?
Perché non mi spieghi?

Mi lasci qui, da sola, al buio, senza abbracci… non mi senti, non mi vuoi più?

Dai, papà, vieni!

Torna, ti prego, torna a prendermi, abbracciami ti prego, vieni e portami via, aiutami, prendimi e portami via, subito, in fretta, ho freddo, è tanto buio, e credo di avere paura, credo di non sapere come fare a fare le cose, non so soffiarmi il naso se non mi dai tu il fazzoletto e le tue mani grandi che mi stringono mentre soffio forte!

Papà… non mi senti?
Papà! Sono qui! Mi vedi?
Papà!
Papà… dove sei?
Dimmi dove sei, vengo io da te e tu mi porti via… Dimmelo, dimmi dove sei, dove sei?

Papà…


Papà… mi abbracci ancora?

mercoledì 8 aprile 2015

Ciao amore, scrivimi i numeri (almeno)


1
Cosa metti tu al primo posto?
Che ne sai di me?
2
Bisogna essere in due.
In due per fare una cosa. Che sia bella, che sia brutta, fare qualcosa.
Ci siamo solo immaginati.
Ora, che ora è? Dove sei? Che fai? E io? Non ti scoccia non avermi? Non sapere? Quindi, che si fa? Che ne facciamo?
3
Il numero perfetto.
Ma anche no.
Se io sono l’altra, non c’è nulla di perfetto.
4
I quattro angoli, il gioco.
Ci hai mai giocato?
Tu, che giochi come un gatto con me, me che sarei la matta del gruppo, sai a che gioco stai giocando?
5
Le regole. Le buone regole sono sempre cinque.
Tornare al numero 1.
6
Sei chi sei e sei come sei.
Sono quello che sono.
Potevo essere diversa?
Ti ho chiesto una volta, se mai, mai nella vita, essere chi sono e come sono, mi avrebbe permesso di essere diversa e fare diversamente.
Te ne è fregato mai un cazzo?
7
Le meraviglie del mondo e i peccati capitali.
La felicità e la disperazione.
Tu, della seconda, hai fatto il pieno.
Che ne è di noi, su questo baratro, scemo che sei?
8
L’infinito.
Quando tutto sembra finito, è proprio là che tutto comincia.
9
Nove sono i sette nani più due: Biancaneve e la matrigna.
Stessa roba del numero 3.
10
Ten! Ho fatto l’amplein! L’amplein di delusioni, di misure del dolore sulla scala da uno a dieci. Mi resta solo la rabbia.
Da uno a dieci, sono arrabbiata dieci.
Lasciami perdere, non c’è spazio per la mia storia in questa storia.
11
Non si divide con niente.
Certi numeri sono più saggi di noi.
Voglio essere un undici. Non mi divido, spariglio e sparisco.
12
La dozzina di uova, la dozzinalità di certe cazzate.
Di’ qualcosa che sia una cosa o lascia così.
13
Numero che adoro. Naturalmente, chiaro, ovvio.
E tu?
14
Non mi viene in mente nulla.
Quattordicimilafantastiliardi di molecole del mio corpo ti imprecano contro.
Le altre ti vogliono.
Passiamo a quello dopo.
15
Quindici giorni di te, di te e di me, di noi.
Quindicimila leghe tra me e te.
Nemmeno un bacio, neppure un caffè.
E no, non abbiamo paura, no no.
16
Sedici i tuoi messaggi a vuoto fino a stamattina.
Sedicimila le mie imprecazioni.
17
Una iattura, secondo alcuni.
E, difatti, tu hai annunciato lo stop.
Poco convincente.
18
La maturità. L’età della responsabilità.
Di che ci facciamo carico, a sto punto, esattamente?
19
Un diciannove è un diciannove e basta.
Hai ragione: andiamo oltre.
20
Per te, sempre un numero.
E quindi?
Io sono qua.
21
Tocca a me.
Tocca a me, ok, va bene, sono qui, ti leggo, ti sento, ogni minuto, ogni istante… ma cosa, esattamente cosa, cazzo, tocca a me?
22
Via con 1.
Appunto.
Torna alla casella di partenza.
23
Ciao amore, i numeri te li ho scritti.
Te li ho scritti con rabbia, tanta rabbia, tutta la rabbia che ho.
Cosa vuoi da me, amore?
24
Almeno.
Doppio della dozzina.
Almeno un caffè.
Almeno potessimo. Potessimo viverci. Potessimo dirci. Potessimo farci.
Ma nemmeno.

martedì 7 aprile 2015

L’eccezione che porti



Ho cancellato quasi tutto. Ho voglia di pulizia, di poesia, di cose per bene, di cose che sanno di buono.

Il profumo del pane appena sfornato. L’odore del bucato steso al sole.

Le mani nelle mani, gli occhi negli occhi, la voglia di rischiare e rischiare qualcosa di vero per qualcosa di buono.

Un viaggio in macchina chiacchierando a bassa voce, la musica a palla cantando a squarciagola.

Il frusciare della gonna di una donna, la galanteria di un uomo innamorato.

Il sorriso di un bambino, le carezze e gli abbracci di una mamma.

Il tramonto sul mare, la birra con gli amici, i piedi nella sabbia.

Stare sdraiati nell’erba, immobili sotto il cielo, cercare di ricordare le nuvole come erano un secondo prima, l’odore dell’erba al primo sole che la scalda, il silenzio del vento che ti accarezza le guance.

Mi circondano troppi inganni e tradimenti, proposte di sesso, sesso in cambio di niente, un brivido forse. Ho trovato poca anima e ancora trovo solo mezze scuse, proposte ambigue, a metà, per vedere se magari ci scappa qualcosa, qualcosa in più, se qualcosa in tasca me ne viene.

Tutte scuse.

La cattiveria non l’abbiamo inventata noi. C’era già. Esisteva come il sole prima di ogni cosa, continuerà dopo di noi. Non scacciamo la paura della morte con il sesso. Non ci salverà. Se per qualche minuto ci sentiamo più forti, più furbi, più illuminati, è poca roba, roba misera.

Il mondo è anche così.

Ci sono cose, ci sono persone, che il mondo lo rendono diverso. Sono persone speciali, cose buone. Che portano pace nel cuore. Sono fatte di poesia. Sono eccezioni.

Incontrarsi, trovarsi, riconoscersi. Simile con simile, vero davanti al vero. E andare avanti, insieme, ricordandosi chi si è veramente, quali sogni abbiamo, qual è la ragione per cui siamo qui. E magari anche perdersi. Lasciarsi perdere. Perdere insieme.

Siamo un destino da compiere. Siamo vita e parole, siamo emozioni e azioni, siamo fragili, fragilissimi, appesi a quella speranza della poesia che mettiamo nelle cose che facciamo, nelle parole che usiamo per noi stessi e per gli altri. Siamo carne, siamo passione, siamo respiro. Siamo animali, fatti per rotolare e annodarci nel sudore. E siamo anima e siamo cuore. E siamo anche cose, oggetti dimenticati, a volte, pieni di polvere e destinati ad essere polvere.

Siamo quello che siamo e non siamo diversi.

Camminiamo tutti incerti, spaventati, su sentieri che abbiamo imboccato decidendo al bivio o senza decidere nemmeno troppo.

È quello che cerchiamo, di noi negli altri, che fa la differenza, che ci rende speciali.

La speranza che qualcosa possa cambiare, che ogni persona possa avere poesia e portarcela nel cuore.

Liste di cose



Un elenco di cose che non ti ho chiesto.

Innamorati di me. E innamorati prima ancora di te stesso.

Se hai voglia di essere felice, e di essere felice con me, lascia quella casa e quella donna, e vieni a cercarmi solo dopo che avrai capito, camminando da solo, per tornare alla tua casa vuota, se vuoi invitare me, proprio me, a bere un caffè da te, solo un caffè, senza nemmeno sfiorarmi.

Guardami negli occhi e dimmi le cose che senti per me. Fatti guardare negli occhi mentre ti racconto di me.

Cose che nemmeno ho osato sognare di confessarti.

Potrei innamorarmi di te. Non di quel pirla viscido che ogni tanto sei. Ma di quell’uomo sensibile, intelligente, pieno di cicatrici che la vita ti ha lasciato addosso. Quell’uomo che ha tanto da raccontare e che potrebbe capire chi sono, dando un senso alla donna che vorrei essere.

Non so se potrei amarti. Vorrei scoprirlo. Vorrei, lo farei, insieme a te. Ma dovresti prendere la tua vita, quella che stai vivendo e che ti fa schifo, e buttarla via.

Ho sofferto tanto. Tanto e in modo immenso anche io. Ho patito un inferno di dolore, forse anche tre inferni, in questa vita che ho vissuto. E sono diventata la bestiola buffa spaventata e tenera che vedi. Vorrei essere anche meno forte di quello che sono. Vorrei essere anche solo un fiore appoggiato a uno stelo. E non spezzarmi tutte le volte. Non succede. Sono quella che sono e mi chiedo se potrei esserlo insieme a te, anche solo per un tratto di strada, per quel tempo che ci serve ad amarci fino a che ci desidereremo.

Cose che non ho fatto.

Baciarti.

Toccarti.

Chiudere gli occhi e lasciar scivolare la mia pelle sulla tua.

Parlarti, ascoltarti, camminare con te, mangiare con te.

Ubriacarci e fare sesso da ubriachi.

Passare un intero week end chiusi in casa.

Andare a vedere il mare di notte e fare l’amore dappertutto, non dormire, sognare di non tornare mai.

Cose che non fai.

Cambiare la tua vita.

Uscire allo scoperto.

Smettere di provocarmi.

Chiedermi di darti il coraggio di liberarti dalla tua gabbia dorata.

Chiedermi cose che non sai se potrò mai darti.

Raccontarmi se hai dei sentimenti per me.

Smettere di avere paura di quello che potremmo provare.

Cose che non farai mai.

Amarmi.

L’amore con me.

Baciarmi.

Toccarmi.

Conoscere il mio odore, asciugare le mie lacrime, ridere con me.

Cose che a breve smetterai di fare.

Flirtare.

Scrivermi.

Chiedermi di fotterti.


Per una volta



Per una volta, è tutto facile, in un certo senso, per me.

È stato semplice, semplicissimo, incuriosirmi e incuriosirti, aprire fra noi un varco, uno spiraglio, sbirciare, sentire l’affinità; poi vedere arrivare la possibilità del coinvolgimento e frenare, alzare barriere di fronte al pericolo, abbattere le mie paure fidandomi di me stessa, percepire la vicinanza fra noi e la voglia di andarci dentro con tutte le scarpe; e quindi scappare di nuovo, distruggere tutto, con un semplice passo indietro, un muro di silenzio, sparire, lasciare te e me soli, ognuno di nuovo alla sua vita, senza che fosse cambiato e successo nulla.

E io sono qua, quasi immobile, quasi nascosta ad aspettarti, mentre procedo e vado avanti.

Tu, chi lo sa.

Sei arrabbiato. Indispettito, per il capriccio che non ti sei potuto togliere.

Io amareggiata, ferita dal mondo per come è, e delusa da te, che mi hai vista e voluta solo come si vuole un oggetto bello, nuovo e magari costoso, per sfoggiarlo un po’, non credo altro.

Mettersi in gioco è un’altra cosa.

È difficile, a volte; altre volte, forse, è troppo semplice.

Devi sapere, ogni volta, che se ti metti in gioco abbandoni le tue sicurezze, lasci stare le certezze di sempre, ti metti nelle mani di un’altra persona e, forse, forse sì, anche un po’ del destino.

Devi sapere, ogni giorno, che mettersi in gioco è fare un passo in avanti e in fuori, verso l’ignoto.

Puoi non sapere come fare, ma devi volerlo.

Ed è quando smetti di volerlo, quando ti arrendi a quel che c’è, che, allora, devi anche sapere che comunque, anche se non lo vuoi, anche se fai finta di ignorarlo, continuerai a doverti mettere in gioco, da solo o con qualcun altro, sempre, perché è sempre nel gioco che devi giocare la partita.

Raccogli i tuoi cocci, i santissimi pezzi di te che ogni volta si mescolano, riprendi il filo della tua storia e decidi di nuovo quale è il tuo cammino, il tuo tratto di strada davanti a te che devi fare.

E devi andare.

Non puoi restare là, fermo, immobile, in attesa.

Nessuno è veramente fermo, veramente immobile.

E devi sapere che non te ne farai niente della ragione. 

Devi sapere che si tratta di scelte e non c’è giusto, non c’è sbagliato, non c’è mio, non c’è tuo.

C’è solo un andare, un continuo andare, andare avanti, senza rimedio.

Ed è stato così facile essere totalmente me stessa, nel bene e nel male, così facile che, oggi, non lo so più cosa è bene e cosa è male davvero.

Ho scelto di dirtelo. Ho scelto di farti sapere cosa voglio e cosa avrei potuto volere da noi, se mai avessimo iniziato a viverci. Non ho scelto noi, però. Non ho scelto di viverci. Non ho scelto di lasciar perdere me stessa e le mie convinzioni. Ho scelto di esserci, vera e leale, così come sono. Di essere presentissima e pronta a fare un passo in avanti, chiedendo a te la stessa cosa, di fare un passo in avanti, di essere semplice nella scelta, senza inganno.

Non abbiamo mai bevuto quel caffè.

Tu, chi lo sa dove sei, sei dietro al mio muro di silenzio e soffi di rabbia, aspettando che io ceda come una tavoletta di legno leggero.

Io, se ti chiedi dove sono, sono quel muro di silenzio, mi stai soffiando dentro e sento tutto.

Per questo non cederò.

Non ne ho bisogno.

È così semplice essere me stessa e, per una volta, questa volta, credere fino al midollo che, mettendo il gioco nelle tue mani, come tu credi di averlo messo nelle mie, aspettando che sia io a cedere e prenderti, sarà semplice e facile.

Non scricchiola niente intorno a noi.

Non cede nulla.

È facile, questa volta, amarmi.

Così come soffrirne, anche e ancora, pure questa volta.


domenica 22 marzo 2015

Pianissimo lento aspettare


Sono al terzo bicchiere. Formicola la gamba sinistra. Quasi un pacchetto di sigarette. Spengo e accendo. Poi controllo ancora un’ultima volta, forse la diciannovesima della giornata, l’orario del tuo ultimo accesso.

È così che ci riesco, da quarantottore, a non scriverti, a non farmi più sentire.

Non c’era niente, non c’è niente, non è successo nulla e non deve succedere, mi ripeto continuamente, come un mantra come un rosario. Non è successo nulla e, se Dio mi sta vedendo, non deve succedere.

Dopo quarantottore non so benissimo perché non debba succedere, ma credo alla decisione presa quando ero lucida, quando ho annusato il pericolo, e, testarda stupida cocciuta come una bestia senza ragione, continuo così, senza scriverti, sparita, ammutolita e imperterrita.

L’ho visto arrivare all’arrembaggio, come la nave dei pirati, con le vele nere, gonfie di vento, veloce, terrificante, il pericolo.

E io che non ho paura, non realmente, nemmeno oggi, oggi che non so più se ne avessi quarantottore fa, ho capito che dovrei avere ancora più paura per questo, per questa spavalderia del cazzo che mi ritrovo addosso e che mi fa imprecare.

Più o meno penso una parolaccia ogni minuto. Autocensuro delle bestemmie mai dette prima, nemmeno mai pensate, ma che, per l’occasione, scopro che mi appartengono. Le sento, le bestemmie che sento affiorarmi dalle budella e le imprecazioni, che sono tutto quello che ho oggi.

Non so quanto durerà la santità.

Riaccendo una sigaretta. Nona sinfonia di Beethoven.

Non ci sei. Non ci sono. Non esisto. Non esisti. Non siamo mai esistiti.

C’eri. C’ero. Era tutto veloce, semplicissimo, vero, vicino come certi giorni di sole, come quei cieli carichi di pioggia che sta per scrosciare, da un minuto all’altro, già vedi i lampi, poi arrivano i tuoni e ci vorrebbe un ombrello.

E scrivevo, tu scrivevi. Una verità. Una domanda. Una battuta. Una allusione. E così via.

Come è successo che ho scritto che non avrei più scritto? Ah, sì, lo ricordo. Non ho più scritto. Per ora.

Ho consegnato la mia anima a un cassetto e il cuore ad un’amica. Ho fatto così, per ora. 

Non passa un minuto che non mi chieda se invece dovrei scriverti e cercare di viverti.

Riparto d’accapo: sigaretta, vino, Beethoven, va bene anche Mahler, forse anche Debussy, mi dico di non pensarti e, per ora, funziona.

Quanto ancora sarò forte? Quanti giorni devono ancora passare perché io non aspetti più un tuo messaggio? Quanti giorni devo ancora chiedermi cosa sarebbe stato se fossi venuta a quel pranzo? Quanti minuti passano in un giorno, realmente, se speri che qualcosa di meraviglioso succeda ma sai già che di solito non va così? Quanti messaggi ti sto mandando che non scrivo e non invio?

Perdo il conto. Non lo so.

E come saremmo finiti?

Fammi capire, ci saremmo avvinghiati all’istante, correndo da me, in studio, giusto lì di fronte, o piuttosto nel bagno, o come? O ci saremmo fissati, tipo in silenzio, tipo imbarazzati per l’effetto iperrealtà di noi balzati fuori dai messaggi e sbalzati dentro alla tresca? Avremmo mangiato? Avresti ordinato con aglio o leggero? Avevi un piano, tu che tradisci, tu che sai e che avevi ragione quando hai scritto che avremmo sofferto, avevi un piano per viverla senza soffrire?

Nemmeno un caffè, il giuramento fatto alla mia amica. Ed è difficile non conoscerti, non scoprire chi sei, come sei veramente.

Strano, ma logico per me, che sia già dato per scontato, nella mia testa, che tu non avresti capito me. O mi hai capita? Hai già capito?

Quel poco, pochissimo, che ti ho lasciato vedere, come sempre d’altronde, mica permetto, sai, di solito, di vedere realmente chi sono, quel poco che hai intravisto, ti è bastato?

E adesso?

Non so se ti avrei baciato. Non so se ti avrei conosciuto. Non so se avremmo avuto una notte, tre settimane, sei mesi, un anno. Non lo so. Forse, ti avrei conosciuto. Forse, se non fosse tutto così sleale e meschino, ti scriverei all’istante e all’istante correrei. Da te.

So che mi sarei divertita a disarmarti, lasciarti abbassare la guardia, stupirti e lasciarmi stupire, come abbiamo fatto in questi cinque giorni, sinceri e stupidissimi, consapevoli, diretti e cauti, ruvido e adorabile tu, divertente e misteriosa io.

Se poi, però, ti avessi voluto, se mi fossi piaciuto e se mi fosse piaciuto piacerti, avrei voluto averti. E i patti, chiarissimi e sleali fin dall’inizio, non l’avrebbero incluso.

C’è ancora spazio per la poesia, una speranza per noi?

Non sono paziente. Non avrei avuto la pazienza di aspettarti. Sono impulsiva. Avrei fatto e detto robe molto da me, ma molto illogiche, per sfidarti, come infondo sto facendo ora, con il mio silenzio di tomba, con il mio muro di orgoglio, le mie spine di donna, la mia fuga infantile.

Le cose che vorrei sono così diverse da quelle che vuoi tu?

E mi starai maledicendo, starai imprecando anche tu, magari anche un po’ contro te stesso e il tuo cliché, originale e doloroso come l’hai definito tu, con la tua verità e l’incoerenza che ti sei attribuito, bandito e poco raccomandabile, sono state le tue parole e le ricordo tutte.

I pieni di ieri e il vuoto immenso di oggi.

I miei sogni e tu che chissà dove sei.

Debussy. Claire de lune. La Suite Bergamasque, per chiamarla come si deve.

Pianissimo, note fragilissime e piccolissime si inseguono piano piano, si staccano, silenzi, piccolissimi, poi rotolano altre note, silenzio, nota nota nota, piccolo silenzio, nota, note, silenzio e poi, eccolo, il crescendo di note che non si staccano più, volteggiano, una dietro l’altra, una danza, sembra che non si fermi, poi, eccoli di nuovo, i piccoli staccati, le pause tra una nota e l’altra. Silenzi e note, vuoti e pieni, pause e inseguimenti, ultima nota, ultimo raggio di luna, ultimo messaggio, finisce la Suite, come qui finiamo noi, forse.

Quando viene il bello


Quando viene il bello, lo sai, in qualche modo e in ogni modo, che quello è l’attimo, l’attimo da afferrare. Il momento di gettare a terra le maschere, i vestiti, le lagne e le persecuzioni di sempre e sopra si apre una botola, una porta in cielo. Sai che devi saltare e poi nuotare e poi respirare fra gli strappi. Fai un salto, con tutta la forza che hai, per volare un po’ e afferrare il rischio. Teletrasporto direzione altrove.

Quando viene il bello si accendono le insegne, mille cartelli puntano un’unica direzione, il vento soffia, gli ombrelli volano e le scarpe si slacciano. Il bello viene e ti prende. E se non ti lasci afferrare, non ti cercherà, ti lascerà e si dimenticherà anche di te.

Oppure no.

Vivi tranquillo, una vita sicura, fingi di stare al gioco e resti lì, come un uccellino appeso al ramo, a guardare. E non voli. Nemmeno lo sai di avere un paio di ali.

Oppure no.

Oppure scegli di vivere.

Oppure un giorno decidi di fare una cosa nuova.
E poi ancora un’altra.
E poi decidi di non sederti, non accettare tutto.

Seguendo un sentiero qualsiasi, affamato, deluso, smetterai di chiederti come sarà dopo. Imparerai che la felicità è una scelta e che l’amore è una cosa semplice, perché tu sarai leggero, sarai curioso, aperto e vicino a tutti nel mondo. Non alzerai più il sopracciglio. Le parole si saranno asciugate, i pensieri troveranno un loro angolino comodo, le scarpe le lascerai sul tavolo e andrai via.

Coccio dopo coccio, rimetterai insieme la poesia. Troverai bicchieri mezzi vuoti, incespicherai in anime perse, passo dopo passo, barra al vento o quasi. Bisaccia vuota, pochi tesori, ma inestimabili, invisibili quasi, trofei di rese e attese.

Perderai quasi tutto. Lascerai alle spalle tutte le scelte ovvie. Una scala sdrucciola, un alito di sole, un uomo con lo sguardo acceso. Un palpito di noia, una città fradicia, un pomeriggio pallido, parole nuove, un arcobaleno di pensieri, un mazzo di gelsomini.


E tutta una vita davanti.

martedì 3 marzo 2015

Tu che, da lassù, mi guardi


Caro papà che, da lassù, mi guardi, che, quaggiù, manchi come manca il sole dopo tutto un inverno di neve freddo e pioggia, tu che sei stato il mio amico, il mio compagno di avventure, il mio tenero papà, tu che mi hai dovuto lasciare bambina e piccina, tu, da lassù, cosa pensi, oggi, di me?
Sono diventata, anche solo un po’, la donna che pensavi?
Sono vicina, anche solo un pochino, a quello che speravi avrei potuto essere?
Non c’è giorno, da quando sei andato in Cielo, non passa un giorno che io non me lo chieda.

Le tue braccia e le tue mani erano grandissime, forti; io mi ci aggrappavo, mi attaccavo al tuo dito e mi accompagnavi a scuola. Mi davi un bacio, inginocchiandoti, e aspettavi sorridendo che io entrassi. Stavi lì a guardarmi entrare a scuola fino a che io non ero sparita dietro le porte. Tu eri là, non te ne andavi fino a che io non fossi stata al sicuro.
Quante volte ti parlo, ogni giorno!, come se tu fossi qui…
Mi diresti cose diverse dalle chiacchierate che io e te ci facciamo, ogni giorno, tra me e me?
E mi senti? Senti le cose che ti chiedo? Mi risponderesti cose diverse da quelle che io immagino che tu mi dica?
Mi terresti stretta tra le tue braccia, se tornassi a casa e potessi trovarti ancora qui?
Mi daresti un milione e mezzo di baci e carezze, se io fossi triste?

In tutti questi anni, ho continuato a immaginarti.

Ogni volta che sono stata triste, ho immaginato che tu mi abbracciassi; ogni volta che avevo qualcosa da confidarti, ho immaginato di sedermi vicino a te e raccontartelo; ogni volta che è stata dura, ho immaginato di prendere il telefono e sfogarmi con te di tutte le difficoltà; ogni volta che non mi sono piaciuta, ho immaginato di fare qualcosa per rimediare e non dirtelo finché non avevo sistemato il pasticcio.
In tutti questi anni, hai continuato a bussare alla mia porta per darmi il buongiorno, a rimboccarmi le coperte prima di darmi la buonanotte, hai continuato a chiedermi come stavo ogni volta che ho pensato a te.
In tutti questi anni, ti ho costruito, ti ho dato consistenza fiato e anima nel mio cuore. Hai vissuto con me ogni cosa. Non sei mai andato via.

Non ti ho permesso di andartene. Non ho voluto.

Sapevo e so che tu avresti voluto restare. Non te ne sei mai andato veramente.

E so che disapprovi tutte le mie sigarette, la mia pigrizia di certe domeniche, i miei silenzi di fronte ai presuntuosi. Forse, ti da fastidio che io non abbia ancora ricomprato un’auto. Forse, ma non sono sicura, certi miei dubbi, il fatto che io non abbia veramente ancora deciso di credere più forte al mio cuore, al mio coraggio e ai miei sogni, forse, ti fanno preoccupare.

Quante volte ti chiedo come mai non ho fatto una famiglia mia e dove sia la mia metà? Ti faccio arrabbiare? Non so perché, ma immagino che, ogni volta, ti intenerisca di fronte a quella domanda. Ti immagino con uno di quei tuoi sguardi, quasi divertito, quasi stupito, quasi sorpreso, come se ti chiedessi se tua figlia, questa cosina qui, sono veramente io. Ti immagino ridere, ridere forte e ti sento, ti sento davvero!, dirmi di non preoccuparmi, che sono in gamba e che le cose arrivano quando devono arrivare.

E lo so che non avresti voluto lasciarmi sola, così piccola. So che avresti voluto insegnarmi ancora tante cose. Lo so…

So che non hai deciso tu di andartene. So che hai lottato con tutte le forze per restare qui, accanto a me. So che avresti voluto scoprire con me la strada che avrei preso. So che saresti stato là ad aspettare dietro di me e guardarmi andare. Lo so…

Ci sono mille cose che non so e non sai, non sapremo mai di noi, di come saremmo stati se tu fossi stato qui. Avrei scelto la stessa università? Sarei andata a vivere dall’altra parte dell’Oceano? Avresti comprato una casa in collina con il giardino come volevi? Avresti fatto l’ingegnere che disegna e progetta le case come veramente volevi?

Ci saremmo fatti coraggio, credo, come ce ne siamo fatti fino all’ultimo.
Ci saremmo fatti un sacco di risate, come quando ti disegnavo i pupazzetti sorridenti sulle dita dei piedi quando eri in ospedale.
Avremmo fatto lunghe lunghissime camminate in montagna, sono sicura, per pensare e parlare.

Quello che non abbiamo potuto vivere insieme, perché tu eri lassù, un po’ lo abbiamo vissuto insieme, lo so e lo hai visto anche tu.

In qualche strano modo, sei rimasto con me, nella tua forma immaginaria, dentro il mio cuore, di papà speciale, che mi sorride, mi augura sogni d’oro ogni notte e mi protegge da lassù...

venerdì 27 febbraio 2015

Il conto dell’ex amica

Aveva le guance cadenti, mollicce. Labbra rigonfie, quasi tumefatte. Denti da castoro. Occhi cerulei, acquosi e spioventi. Piccola, davvero minuta, per quel seno prosperoso, prorompente. Polsi quasi inesistenti, dita sottilissime, spalle fragili, sottili, quasi inutili. Piedi minuscoli. Gambe sottili e rastremate. Spuntavano, sulla figura esile e fragile, questi occhioni e questi dentoni, questi labbroni.
Una persona sfuggente, inconsistente, con qualcosa di vorace.
Anche il nome, di quella ragazza, stroppiava: era altisonante e melodrammatico.
Tutto, di lei, insomma, diceva già tutto.
E anche il fatto che, quando l’ho conosciuta, stava con un certo Albi, ma non ci ha messo né a né be a lasciarlo e mettersi con Bibo, amico del mio ragazzo, capetto indiscusso del nostro gruppo di amici. Anche quella cosa mi aveva lasciato perplessa, davvero senza parole, come i suoi occhi spioventi, quel seno enorme su quel corpo minuscolo, quella boccona e quei dentoni, su quella donna minuta.
Inconsistente, era evanescente. Ma vorace. Voleva e otteneva, aveva fame. E quello che ha voluto, lo ha preso.
Ben per lei.
Ben per lei, oggi sposata e figliata, con quel Bibo.
Ben per lei. Buon per lei.
Io mi dissocio e aspetto.
Aspetto.
Aspetto che, anche per lei, arrivi il conto.
E, il conto, arriverà.
Sono passati quindici anni e ancora non lo ha saldato, per quanto mi riguarda.
Il conto, per quanto mi riguarda, di avermi concesso quattordici giorni di ospitalità, non uno in più, quando mi ero appena trasferita a Milano per lavoro.
Il conto, per quanto mi riguarda, di non avermi mai detto che il mio ragazzo di allora, dopo sette anni di storia, si era stufato di me e messo con una sua amica, che gli aveva presentato lei, che lei ha poi invitato a casa sua in montagna per le vacanze di Natale, mentre lui a me vendeva ancora, da mesi, la storia della crisi esistenziale.
Il conto, per quanto mi riguarda, di non avermi mai offerto nemmeno una spalla per piangere, quando non capivo come mai io pensassi che la crisi esistenziale del mio ragazzo avesse un nome e cognome preciso, quello della sua amica, ma nessuno, ma proprio nessuno,lei per prima, mi dava un minimo indizio.
Ho avuto una sola soddisfazione.
In quell’estate che ho trascorso sui libri a scrivere la tesi di laurea, mentre lei, loro, lui e quell’altra, erano tutti in vacanza in barca insieme, senza di me, ho versato una tazza di tè sul suo laptop, che si è inchiodato, rotto, devastato per sempre!
Lasciamo perdere il mio panico per il fatto che era ferragosto e che avevo paura di aver perso duecento pagine di lavoro duro serio e sudato.
Lasciamo perdere che ho sborsato di tasca mia, attingendo ai miei risparmi, i soldi che potevo darle per ripagarle quel laptop.
Lasciamo perdere che lei ne voleva il doppio, perché, così mi disse, era il prezzo del modello nuovo che voleva.
Lasciamo perdere che, quando lei è partita e tornata dopo un mese dall’Erasmus, io sono stata l’unica, l’unica senza eccezione, a difenderla, quando anche il suo Bibo la attaccava e definiva viziata e codarda.
Io, quantomeno, non ci ho rimesso un soldo di più, non ci ho rimesso la dignità, non ci ho rimesso l’orgoglio.
Io, senza figli, senza marito, bridget jones ancora alla ricerca del mio paio di scarpe, io, a differenza sua, me ne sono andata a testa alta.
Con dignità e coraggio ho affrontato tutte le salite, tutte le curve del mio tragitto, senza contare su altri che su me stessa.
Io, a differenza sua, tutto quello che ho conquistato e portato a casa, tutte le vittorie, non l’ho ottenuti se non facendo affidamento su me stessa.
Lei, a differenza mia, ha avuto papino e fidanzatino e poi maritino che le hanno dato soldi casa riparo spintarelle varie e raccomandazioni.
Lei, a differenza mia, non ha superato mezza salita, mezza curva, mezza fatica, da sola.
E, per quello che so della vita, su questa terra, questi grandi favori del destino si pagano, prima o poi.
La vita presenta sempre un conto.
Un conto che, se lo paghi giorno per giorno, senza barattini favorini e favoroni di nessuno, ce la puoi fare a pagare.
Un conto che, se invece non arriva mai, quasi che tu avessi, rispetto agli altri, un merito di credito maggiore, una specie di carta paradiso con punti infiniti, un conto, che, invece, alla fine, arriva, arriva eccome!
Arriva. Salato. Salatissimo. Perché tutto ha un prezzo!
E io, quel giorno, non ci sarò.
Sarò per i fatti miei, magari sola ancora, magari impegnata a sbrogliare qualche casino intoppo guaio ordinario, ma non ci sarò.
Non ci sono più da quindici anni.
E aspetto.
Aspetto di vederlo, quel conto.
Che arriverà e sarà durissimo.

Buona fortuna, cara!