domenica 22 marzo 2015

Pianissimo lento aspettare


Sono al terzo bicchiere. Formicola la gamba sinistra. Quasi un pacchetto di sigarette. Spengo e accendo. Poi controllo ancora un’ultima volta, forse la diciannovesima della giornata, l’orario del tuo ultimo accesso.

È così che ci riesco, da quarantottore, a non scriverti, a non farmi più sentire.

Non c’era niente, non c’è niente, non è successo nulla e non deve succedere, mi ripeto continuamente, come un mantra come un rosario. Non è successo nulla e, se Dio mi sta vedendo, non deve succedere.

Dopo quarantottore non so benissimo perché non debba succedere, ma credo alla decisione presa quando ero lucida, quando ho annusato il pericolo, e, testarda stupida cocciuta come una bestia senza ragione, continuo così, senza scriverti, sparita, ammutolita e imperterrita.

L’ho visto arrivare all’arrembaggio, come la nave dei pirati, con le vele nere, gonfie di vento, veloce, terrificante, il pericolo.

E io che non ho paura, non realmente, nemmeno oggi, oggi che non so più se ne avessi quarantottore fa, ho capito che dovrei avere ancora più paura per questo, per questa spavalderia del cazzo che mi ritrovo addosso e che mi fa imprecare.

Più o meno penso una parolaccia ogni minuto. Autocensuro delle bestemmie mai dette prima, nemmeno mai pensate, ma che, per l’occasione, scopro che mi appartengono. Le sento, le bestemmie che sento affiorarmi dalle budella e le imprecazioni, che sono tutto quello che ho oggi.

Non so quanto durerà la santità.

Riaccendo una sigaretta. Nona sinfonia di Beethoven.

Non ci sei. Non ci sono. Non esisto. Non esisti. Non siamo mai esistiti.

C’eri. C’ero. Era tutto veloce, semplicissimo, vero, vicino come certi giorni di sole, come quei cieli carichi di pioggia che sta per scrosciare, da un minuto all’altro, già vedi i lampi, poi arrivano i tuoni e ci vorrebbe un ombrello.

E scrivevo, tu scrivevi. Una verità. Una domanda. Una battuta. Una allusione. E così via.

Come è successo che ho scritto che non avrei più scritto? Ah, sì, lo ricordo. Non ho più scritto. Per ora.

Ho consegnato la mia anima a un cassetto e il cuore ad un’amica. Ho fatto così, per ora. 

Non passa un minuto che non mi chieda se invece dovrei scriverti e cercare di viverti.

Riparto d’accapo: sigaretta, vino, Beethoven, va bene anche Mahler, forse anche Debussy, mi dico di non pensarti e, per ora, funziona.

Quanto ancora sarò forte? Quanti giorni devono ancora passare perché io non aspetti più un tuo messaggio? Quanti giorni devo ancora chiedermi cosa sarebbe stato se fossi venuta a quel pranzo? Quanti minuti passano in un giorno, realmente, se speri che qualcosa di meraviglioso succeda ma sai già che di solito non va così? Quanti messaggi ti sto mandando che non scrivo e non invio?

Perdo il conto. Non lo so.

E come saremmo finiti?

Fammi capire, ci saremmo avvinghiati all’istante, correndo da me, in studio, giusto lì di fronte, o piuttosto nel bagno, o come? O ci saremmo fissati, tipo in silenzio, tipo imbarazzati per l’effetto iperrealtà di noi balzati fuori dai messaggi e sbalzati dentro alla tresca? Avremmo mangiato? Avresti ordinato con aglio o leggero? Avevi un piano, tu che tradisci, tu che sai e che avevi ragione quando hai scritto che avremmo sofferto, avevi un piano per viverla senza soffrire?

Nemmeno un caffè, il giuramento fatto alla mia amica. Ed è difficile non conoscerti, non scoprire chi sei, come sei veramente.

Strano, ma logico per me, che sia già dato per scontato, nella mia testa, che tu non avresti capito me. O mi hai capita? Hai già capito?

Quel poco, pochissimo, che ti ho lasciato vedere, come sempre d’altronde, mica permetto, sai, di solito, di vedere realmente chi sono, quel poco che hai intravisto, ti è bastato?

E adesso?

Non so se ti avrei baciato. Non so se ti avrei conosciuto. Non so se avremmo avuto una notte, tre settimane, sei mesi, un anno. Non lo so. Forse, ti avrei conosciuto. Forse, se non fosse tutto così sleale e meschino, ti scriverei all’istante e all’istante correrei. Da te.

So che mi sarei divertita a disarmarti, lasciarti abbassare la guardia, stupirti e lasciarmi stupire, come abbiamo fatto in questi cinque giorni, sinceri e stupidissimi, consapevoli, diretti e cauti, ruvido e adorabile tu, divertente e misteriosa io.

Se poi, però, ti avessi voluto, se mi fossi piaciuto e se mi fosse piaciuto piacerti, avrei voluto averti. E i patti, chiarissimi e sleali fin dall’inizio, non l’avrebbero incluso.

C’è ancora spazio per la poesia, una speranza per noi?

Non sono paziente. Non avrei avuto la pazienza di aspettarti. Sono impulsiva. Avrei fatto e detto robe molto da me, ma molto illogiche, per sfidarti, come infondo sto facendo ora, con il mio silenzio di tomba, con il mio muro di orgoglio, le mie spine di donna, la mia fuga infantile.

Le cose che vorrei sono così diverse da quelle che vuoi tu?

E mi starai maledicendo, starai imprecando anche tu, magari anche un po’ contro te stesso e il tuo cliché, originale e doloroso come l’hai definito tu, con la tua verità e l’incoerenza che ti sei attribuito, bandito e poco raccomandabile, sono state le tue parole e le ricordo tutte.

I pieni di ieri e il vuoto immenso di oggi.

I miei sogni e tu che chissà dove sei.

Debussy. Claire de lune. La Suite Bergamasque, per chiamarla come si deve.

Pianissimo, note fragilissime e piccolissime si inseguono piano piano, si staccano, silenzi, piccolissimi, poi rotolano altre note, silenzio, nota nota nota, piccolo silenzio, nota, note, silenzio e poi, eccolo, il crescendo di note che non si staccano più, volteggiano, una dietro l’altra, una danza, sembra che non si fermi, poi, eccoli di nuovo, i piccoli staccati, le pause tra una nota e l’altra. Silenzi e note, vuoti e pieni, pause e inseguimenti, ultima nota, ultimo raggio di luna, ultimo messaggio, finisce la Suite, come qui finiamo noi, forse.

Quando viene il bello


Quando viene il bello, lo sai, in qualche modo e in ogni modo, che quello è l’attimo, l’attimo da afferrare. Il momento di gettare a terra le maschere, i vestiti, le lagne e le persecuzioni di sempre e sopra si apre una botola, una porta in cielo. Sai che devi saltare e poi nuotare e poi respirare fra gli strappi. Fai un salto, con tutta la forza che hai, per volare un po’ e afferrare il rischio. Teletrasporto direzione altrove.

Quando viene il bello si accendono le insegne, mille cartelli puntano un’unica direzione, il vento soffia, gli ombrelli volano e le scarpe si slacciano. Il bello viene e ti prende. E se non ti lasci afferrare, non ti cercherà, ti lascerà e si dimenticherà anche di te.

Oppure no.

Vivi tranquillo, una vita sicura, fingi di stare al gioco e resti lì, come un uccellino appeso al ramo, a guardare. E non voli. Nemmeno lo sai di avere un paio di ali.

Oppure no.

Oppure scegli di vivere.

Oppure un giorno decidi di fare una cosa nuova.
E poi ancora un’altra.
E poi decidi di non sederti, non accettare tutto.

Seguendo un sentiero qualsiasi, affamato, deluso, smetterai di chiederti come sarà dopo. Imparerai che la felicità è una scelta e che l’amore è una cosa semplice, perché tu sarai leggero, sarai curioso, aperto e vicino a tutti nel mondo. Non alzerai più il sopracciglio. Le parole si saranno asciugate, i pensieri troveranno un loro angolino comodo, le scarpe le lascerai sul tavolo e andrai via.

Coccio dopo coccio, rimetterai insieme la poesia. Troverai bicchieri mezzi vuoti, incespicherai in anime perse, passo dopo passo, barra al vento o quasi. Bisaccia vuota, pochi tesori, ma inestimabili, invisibili quasi, trofei di rese e attese.

Perderai quasi tutto. Lascerai alle spalle tutte le scelte ovvie. Una scala sdrucciola, un alito di sole, un uomo con lo sguardo acceso. Un palpito di noia, una città fradicia, un pomeriggio pallido, parole nuove, un arcobaleno di pensieri, un mazzo di gelsomini.


E tutta una vita davanti.

martedì 3 marzo 2015

Tu che, da lassù, mi guardi


Caro papà che, da lassù, mi guardi, che, quaggiù, manchi come manca il sole dopo tutto un inverno di neve freddo e pioggia, tu che sei stato il mio amico, il mio compagno di avventure, il mio tenero papà, tu che mi hai dovuto lasciare bambina e piccina, tu, da lassù, cosa pensi, oggi, di me?
Sono diventata, anche solo un po’, la donna che pensavi?
Sono vicina, anche solo un pochino, a quello che speravi avrei potuto essere?
Non c’è giorno, da quando sei andato in Cielo, non passa un giorno che io non me lo chieda.

Le tue braccia e le tue mani erano grandissime, forti; io mi ci aggrappavo, mi attaccavo al tuo dito e mi accompagnavi a scuola. Mi davi un bacio, inginocchiandoti, e aspettavi sorridendo che io entrassi. Stavi lì a guardarmi entrare a scuola fino a che io non ero sparita dietro le porte. Tu eri là, non te ne andavi fino a che io non fossi stata al sicuro.
Quante volte ti parlo, ogni giorno!, come se tu fossi qui…
Mi diresti cose diverse dalle chiacchierate che io e te ci facciamo, ogni giorno, tra me e me?
E mi senti? Senti le cose che ti chiedo? Mi risponderesti cose diverse da quelle che io immagino che tu mi dica?
Mi terresti stretta tra le tue braccia, se tornassi a casa e potessi trovarti ancora qui?
Mi daresti un milione e mezzo di baci e carezze, se io fossi triste?

In tutti questi anni, ho continuato a immaginarti.

Ogni volta che sono stata triste, ho immaginato che tu mi abbracciassi; ogni volta che avevo qualcosa da confidarti, ho immaginato di sedermi vicino a te e raccontartelo; ogni volta che è stata dura, ho immaginato di prendere il telefono e sfogarmi con te di tutte le difficoltà; ogni volta che non mi sono piaciuta, ho immaginato di fare qualcosa per rimediare e non dirtelo finché non avevo sistemato il pasticcio.
In tutti questi anni, hai continuato a bussare alla mia porta per darmi il buongiorno, a rimboccarmi le coperte prima di darmi la buonanotte, hai continuato a chiedermi come stavo ogni volta che ho pensato a te.
In tutti questi anni, ti ho costruito, ti ho dato consistenza fiato e anima nel mio cuore. Hai vissuto con me ogni cosa. Non sei mai andato via.

Non ti ho permesso di andartene. Non ho voluto.

Sapevo e so che tu avresti voluto restare. Non te ne sei mai andato veramente.

E so che disapprovi tutte le mie sigarette, la mia pigrizia di certe domeniche, i miei silenzi di fronte ai presuntuosi. Forse, ti da fastidio che io non abbia ancora ricomprato un’auto. Forse, ma non sono sicura, certi miei dubbi, il fatto che io non abbia veramente ancora deciso di credere più forte al mio cuore, al mio coraggio e ai miei sogni, forse, ti fanno preoccupare.

Quante volte ti chiedo come mai non ho fatto una famiglia mia e dove sia la mia metà? Ti faccio arrabbiare? Non so perché, ma immagino che, ogni volta, ti intenerisca di fronte a quella domanda. Ti immagino con uno di quei tuoi sguardi, quasi divertito, quasi stupito, quasi sorpreso, come se ti chiedessi se tua figlia, questa cosina qui, sono veramente io. Ti immagino ridere, ridere forte e ti sento, ti sento davvero!, dirmi di non preoccuparmi, che sono in gamba e che le cose arrivano quando devono arrivare.

E lo so che non avresti voluto lasciarmi sola, così piccola. So che avresti voluto insegnarmi ancora tante cose. Lo so…

So che non hai deciso tu di andartene. So che hai lottato con tutte le forze per restare qui, accanto a me. So che avresti voluto scoprire con me la strada che avrei preso. So che saresti stato là ad aspettare dietro di me e guardarmi andare. Lo so…

Ci sono mille cose che non so e non sai, non sapremo mai di noi, di come saremmo stati se tu fossi stato qui. Avrei scelto la stessa università? Sarei andata a vivere dall’altra parte dell’Oceano? Avresti comprato una casa in collina con il giardino come volevi? Avresti fatto l’ingegnere che disegna e progetta le case come veramente volevi?

Ci saremmo fatti coraggio, credo, come ce ne siamo fatti fino all’ultimo.
Ci saremmo fatti un sacco di risate, come quando ti disegnavo i pupazzetti sorridenti sulle dita dei piedi quando eri in ospedale.
Avremmo fatto lunghe lunghissime camminate in montagna, sono sicura, per pensare e parlare.

Quello che non abbiamo potuto vivere insieme, perché tu eri lassù, un po’ lo abbiamo vissuto insieme, lo so e lo hai visto anche tu.

In qualche strano modo, sei rimasto con me, nella tua forma immaginaria, dentro il mio cuore, di papà speciale, che mi sorride, mi augura sogni d’oro ogni notte e mi protegge da lassù...