venerdì 27 febbraio 2015

Il conto dell’ex amica

Aveva le guance cadenti, mollicce. Labbra rigonfie, quasi tumefatte. Denti da castoro. Occhi cerulei, acquosi e spioventi. Piccola, davvero minuta, per quel seno prosperoso, prorompente. Polsi quasi inesistenti, dita sottilissime, spalle fragili, sottili, quasi inutili. Piedi minuscoli. Gambe sottili e rastremate. Spuntavano, sulla figura esile e fragile, questi occhioni e questi dentoni, questi labbroni.
Una persona sfuggente, inconsistente, con qualcosa di vorace.
Anche il nome, di quella ragazza, stroppiava: era altisonante e melodrammatico.
Tutto, di lei, insomma, diceva già tutto.
E anche il fatto che, quando l’ho conosciuta, stava con un certo Albi, ma non ci ha messo né a né be a lasciarlo e mettersi con Bibo, amico del mio ragazzo, capetto indiscusso del nostro gruppo di amici. Anche quella cosa mi aveva lasciato perplessa, davvero senza parole, come i suoi occhi spioventi, quel seno enorme su quel corpo minuscolo, quella boccona e quei dentoni, su quella donna minuta.
Inconsistente, era evanescente. Ma vorace. Voleva e otteneva, aveva fame. E quello che ha voluto, lo ha preso.
Ben per lei.
Ben per lei, oggi sposata e figliata, con quel Bibo.
Ben per lei. Buon per lei.
Io mi dissocio e aspetto.
Aspetto.
Aspetto che, anche per lei, arrivi il conto.
E, il conto, arriverà.
Sono passati quindici anni e ancora non lo ha saldato, per quanto mi riguarda.
Il conto, per quanto mi riguarda, di avermi concesso quattordici giorni di ospitalità, non uno in più, quando mi ero appena trasferita a Milano per lavoro.
Il conto, per quanto mi riguarda, di non avermi mai detto che il mio ragazzo di allora, dopo sette anni di storia, si era stufato di me e messo con una sua amica, che gli aveva presentato lei, che lei ha poi invitato a casa sua in montagna per le vacanze di Natale, mentre lui a me vendeva ancora, da mesi, la storia della crisi esistenziale.
Il conto, per quanto mi riguarda, di non avermi mai offerto nemmeno una spalla per piangere, quando non capivo come mai io pensassi che la crisi esistenziale del mio ragazzo avesse un nome e cognome preciso, quello della sua amica, ma nessuno, ma proprio nessuno,lei per prima, mi dava un minimo indizio.
Ho avuto una sola soddisfazione.
In quell’estate che ho trascorso sui libri a scrivere la tesi di laurea, mentre lei, loro, lui e quell’altra, erano tutti in vacanza in barca insieme, senza di me, ho versato una tazza di tè sul suo laptop, che si è inchiodato, rotto, devastato per sempre!
Lasciamo perdere il mio panico per il fatto che era ferragosto e che avevo paura di aver perso duecento pagine di lavoro duro serio e sudato.
Lasciamo perdere che ho sborsato di tasca mia, attingendo ai miei risparmi, i soldi che potevo darle per ripagarle quel laptop.
Lasciamo perdere che lei ne voleva il doppio, perché, così mi disse, era il prezzo del modello nuovo che voleva.
Lasciamo perdere che, quando lei è partita e tornata dopo un mese dall’Erasmus, io sono stata l’unica, l’unica senza eccezione, a difenderla, quando anche il suo Bibo la attaccava e definiva viziata e codarda.
Io, quantomeno, non ci ho rimesso un soldo di più, non ci ho rimesso la dignità, non ci ho rimesso l’orgoglio.
Io, senza figli, senza marito, bridget jones ancora alla ricerca del mio paio di scarpe, io, a differenza sua, me ne sono andata a testa alta.
Con dignità e coraggio ho affrontato tutte le salite, tutte le curve del mio tragitto, senza contare su altri che su me stessa.
Io, a differenza sua, tutto quello che ho conquistato e portato a casa, tutte le vittorie, non l’ho ottenuti se non facendo affidamento su me stessa.
Lei, a differenza mia, ha avuto papino e fidanzatino e poi maritino che le hanno dato soldi casa riparo spintarelle varie e raccomandazioni.
Lei, a differenza mia, non ha superato mezza salita, mezza curva, mezza fatica, da sola.
E, per quello che so della vita, su questa terra, questi grandi favori del destino si pagano, prima o poi.
La vita presenta sempre un conto.
Un conto che, se lo paghi giorno per giorno, senza barattini favorini e favoroni di nessuno, ce la puoi fare a pagare.
Un conto che, se invece non arriva mai, quasi che tu avessi, rispetto agli altri, un merito di credito maggiore, una specie di carta paradiso con punti infiniti, un conto, che, invece, alla fine, arriva, arriva eccome!
Arriva. Salato. Salatissimo. Perché tutto ha un prezzo!
E io, quel giorno, non ci sarò.
Sarò per i fatti miei, magari sola ancora, magari impegnata a sbrogliare qualche casino intoppo guaio ordinario, ma non ci sarò.
Non ci sono più da quindici anni.
E aspetto.
Aspetto di vederlo, quel conto.
Che arriverà e sarà durissimo.

Buona fortuna, cara!

Tutto un caso

È stato tutto un caso.
Una serie di coincidenze bell’e buone.
Tu che, di tutte queste coincidenze, non ti sei fatto una ragione. Tu, che mi vedi e parli, sempre quasi per caso. Tu che, alla fine, mi vien sempre da pensare lasciam perdere. Tu non lo vedi che non è un puro maledetto stupido caso. Io vedo, capisco le cose e faccio finta che sia come dici tu.
Tu, che alle mie robe strane, ci metti la pezza. Tu che, se ti vedo, faccio i salti dentro. Tu, che alla mia calcolata indifferenza, rispondi con leggerezza. Tu che, alla fine, ti impunti sul tuo punto. Tu, alla fine, per puro maledetto incalcolato caso, alla fine, mi insegni e mi insegni un botto di cose.
Non sei felice. Non ti faccio venire voglia di essere felice. Però, per puro caso, capita sempre e sempre che, se siamo tu e me e me e te, con tutto che non siam mai soli, siamo là, a fare e disfare cose casuali abbastanza belle e felici.
Avrei, uso (non per caso) il condizionale, deciso di ignorare il tutto. Avrei deciso di buttare la spugna. E sta resa l’avrei firmata ancora prima di mettermici davvero d’impegno.
La cosa, per puro stranissimo caso, l’hai notata. E, ma non ne sono sicura, non sembra esserti andata bene.
Neppure a me, a dirla tutta, è simpatica sta cosa che ho fatto.
Ma ho fatto così e così stiamo.
Tu, non volendo e non capendo, non hai capito. O hai capito, ma non bene bene.
E, ipotizzo, è il caso nel caso, un vero caso, che ci fa sbattere uno nell’altra, un po’ in cose che sembrava avessimo deciso di abbandonare al punto in cui stavano.
Avrei deciso (ancora condizionale voluto) quindi che, se tanto è tutto un caso, anche io andrei a caso. Avrei rivisto e corretto le mie decisioni. Non saprei se ti è parso chiaro.
Decisioni che comunque ho preso e, visto il tutto, prendo a caso.
Nella casualità e per il caso che sia tutto un equivoco o un ragionevole sbaglio.
Tanto, se è tutto un caso, questo andare venire e ritornare, per poi esser sempre là, abbastanza vicini alle cose dove le abbiamo lasciate e da dove sembra che nascano mille inizi, che tu e io non vediamo e non sappiamo, se è un po’ tutto così, abbastanza casuale, che mi cambia se mi impegno a non prendere grandi decisioni definitive?
E, magari, nel caso, ti sorrido. Avrei st’idea che potrebbe essere casuale un po’ tutto. Se ti cerco se mi cerchi, se ti sfuggo se ho voglia, se ti assecondo se voglio o se vuoi tu.
Facciamo che è un caso.
Tanto, te non lo sai, che cosa ho deciso e che cose fa il caso.
Che poi, al di là di tutti sti casi, che sono casualissimi, mentre tu temporeggi davanti alla decisione di essere felice e farti felice di me, io sono lì con te.

Vedi mai che, per puro caso, ti venisse di essere felice con me.